Forse in tanti sarebbero pronti a giurare che la carbonara, la gricia e la cacio e pepe siano sempre state ai vertici della cucina romana da tempo immemorabile.
E sbaglierebbero.
Infatti, basterebbe tornare indietro di poche decine di anni per scoprire che i piatti considerati più tradizionali erano altri.
Eppure, a quelle che oggi reputiamo le colonne portanti della gastronomia della Capitale era concesso uno spazio minimo all’interno delle trattorie più veraci.
Ma la memoria a volte fa strani scherzi e facciamo fatica a riconoscere che un intero universo culinario si è dissolto nel giro di un paio di generazioni e non ne sentiamo la mancanza.
Lo spunto per ricostruire le vicende della cucina della Città eterna arriva dalla guida di Livio Jannattoni (giornalista, storico e gastronomo scomparso negli anni Novanta) dal titolo Osterie della vita e dell’amore pubblicata 50 anni fa da cui emerge un ritratto piuttosto inedito della cucina tradizionale della Capitale. Tra le altre cose, è a lui che si deve la ricetta dell’amatriciana presa a modello per il deposito ufficiale a livello europeo nel 2019.
Nelle osterie tradizionali il lunedì era il giorno di riso e di indivia in brodo, bollito, polpette al sugo, stufato di manzo, osso di prosciutto stagionato con i fagioli.
Il martedì toccava a pasta e fagioli, minestra di verdure, pesce di paranza, umido, involtini, abbacchio al forno.
Giovedì gnocchi di patate con il sugo dell’umido, polpettone arrosto, teste di capretto o agnello.
Venerdì si trovavano pasta e ceci, spaghetti al tonno, spaghetti alle vongole, baccalà morbido con le cipolline o alla pizzaiola, pesce.
Di sabato era il turno del risotto casareccio cotto nel brodo e condito con funghi e rigaglie di pollo, trippa, fegato.
La domenica spettava alle fettuccine caserecce condite con il sugo dell’umido o degli involtini, ossobuco, brasato, capretto o abbacchio, pollo ruspante.
E tutta la settimana avevamo a disposizione brodo, gallina bollita, verdure, carciofi alla romana, broccoletti a crudo.
Nella lista di Jannattoni la carbonara è citata giusto un paio di volte nella guida senza grande trasporto perché viene ancora percepita come un corpo estraneo rispetto alla cucina laziale più ortodossa.
Questa situazione viene confermata anche dalla Guida ai ristoranti e trattorie d’Italia pubblicato nel 1961 dall’Accademia Italiana della Cucina.
La carbonara compare una sola volta tra le specialità segnalate nei ristoranti della Capitale mentre gricia e cacio e pepe sono completamente assenti.
Inossidabile invece l’amatriciana, gli agnolotti, e soprattutto i cannelloni e le fettuccine.
Il segreto del successo della carbonara si può riassumere quindi nella sua estrema velocità di preparazione, specialmente se confrontata agli altri piatti di pasta fresca.
Ma soprattutto per il gusto che richiama i tipici sapori anglosassoni come le uova e il bacon.
Non è un caso che molte ricette si trovino su libri e riviste in lingua inglese a partire già dai primi anni Cinquanta.
Però una cosa è certa: senza un apprezzamento così eclatante da parte degli americani, probabilmente la carbonara sarebbe stata condannata all’irrilevanza, così come altri piatti inventati nel secondo dopoguerra.
Che la cucina sia in costante e naturale evoluzione non è certo un problema, anzi.
Ben venga che ricette come la gricia o la carbonara siano entrate stabilmente all’interno di un assetto gastronomico già strutturato.
L’aspetto curioso è vedere quanto siano rari gli esperti di cucina che sentono la mancanza dei rigatoni con le rigaglie di pollo o dei cannelloni alla romana rispetto alle schiere di appassionati pronti a indignarsi di fronte a una carbonara fatta con la pancetta o un’amatriciana con un po’ di cipolla.
Forse perchè anche la nostalgia ha la memoria corta.
Ad ogni modo, se questi piatti “più recenti e moderni” hanno soppiantato quelli più datati non possiamo farne un dramma.
Dobbiamo, al contrario, adeguarci ai tempi che cambiano per non finire impantanati su posizioni obsolete.
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